ZANZIBAR – Piantare invece di raccogliere. Coltivare invece di esaurire. Ripopolare invece di consumare le risorse. Concetti semplici ma che hanno rivoluzionato la vita dei pescatori di Jambiani, una laguna sospesa tra mare e cielo nella Zanzibar meno turistica ma più affascinante, costretti ad abbandonare una pesca millenaria che stava impoverendo il mare fino a renderlo improduttivo. Hanno dovuto reinventarsi, imparando a coltivare spugne e coralli per ricolonizzare la barriera corallina che stava morendo e sviluppare una nuova economia. Un progetto semplice e rivoluzionario allo stesso tempo, ideato e gestito dalla ONG svizzera Marine Cultures, che un gruppo di giovani e intraprendenti videomaker italiani ha testimoniato registrando in un cortometraggio emozionante e suggestivo tutti i momenti della “rinascita”.
«Improvvisamente tutto è cambiato. Il pesce non era più abbastanza. La mia vita non c’era più». A parlare è Okala, il project manager dell’ong a Zanzibar, che ha sperimentato sulla sua pelle il cambiamento, la trasformazione e la necessità di una nuova via per sopravvivere. «Il pesce era sempre di meno, sulla spiaggia rifiuti al posto di conchiglie. Il mare stesso era malato e, sul fondo, era solo buio e morte» racconta nel trailer che presenta il docu film e che il Corriere presenta in anteprima. Dopo la disperazione inziale, la speranza arrivata dall’Occidente sotto forma di un’organizzazione, la Marine Cultures. «Utilizziamo progetti di sviluppo dell’acquacoltura per sostenere e promuovere la creazione e l’espansione di una raccolta sostenibile e rispettosa dell’ambiente delle risorse marine nelle comunità costiere, che dipendono fortemente dalla pesca, lavorando a stretto contatto con la popolazione locale» spiega Christian Vaterlaus dell’ONG.
Un’idea semplice e rivoluzionaria, appunto, che ha stravolto un equilibrio millenario ma ormai inefficace in un ambiente trasformato dai cambiamenti climatici e dall’inquinamento. «L’uso eccessivo dell’oceano porta alla distruzione dell’equilibrio ecologico. Allo stesso tempo, le popolazioni costiere perdono la loro fonte di reddito. Ciò ha un impatto catastrofico a breve e lungo termine». Da qui la necessità di individuare un’alternativa che, nel rispetto dell’ambiente produca nuovo reddito. A Zanzibar l’idea è quella di sponge farm e coral farm: “fattorie” sottomarine che producono spugne e coralli sostenibili. «Le spugne sono ricercate dalle industrie cosmetiche, di verniciatura e di cura. Il corallo è necessario per la ricostruzione delle barriere danneggiate. Le fattorie sono gestite indipendentemente dai membri della comunità e i nostri prodotti sono prodotti del commercio equo e solidale». Un meccanismo vincente che ha portato già all’apertura di una decina di farm che, soprattutto per le donne locali, si sono rivelate un’ottima fonte di reddito. Pulito e rinnovabile.
Nello stesso tempo, però, ci si prende cura dell’ambiente. «Costruiamo barriere artificiali insieme con i membri della popolazione locale per mostrare il significato dell’habitat marino per la protezione dall’erosione e come mezzo per attirare il turismo – spiega ancora – E mentre proteggiamo le barriere coralline dai danni di ancoraggio installando boe di ormeggio, sviluppiamo una gestione della pesca sostenibile delle acque costiere in accordo con i pescatori locali. Infine, istituiamo zone di protezione dal divieto generale di pesca».
La storia, cominciata qualche anno e che ora inizia a dare i suoi frutti, ha appassionato Fabrizio Del Dotto, il biologo marino esperto di fotografia e video che ha fondato con i compagni delle scuole superiori di Viareggio Tripodphoto, un collettivo ambizioso che si muove nel mondo dell’immagine. «Realizziamo e produciamo documentari in giro per il mondo – spiega Fabrizio – e nel 2017 ci siamo imbattuti in questa storia. Siamo partiti per Zanzibar e abbiamo trovato un paradiso terrestre. Una laguna senza ombre, su cui volteggiavano i kitesurf, e abbiamo cominciato a girare le storie dei pescatori che hanno trovato una nuova vita grazie al progetto della ONG svizzera».
A condividere con lui la realizzazione di “Bahari Salama” il docu film in lavorazione, Darim Alessandro Da Prato, che insieme a Fabrizio ha creato Tripodphoto. «Abbiamo girato in due settimane, raccogliendo le storie e scendendo in acqua con i pescatori per testimoniare il lavoro che stavano facendo». Nel blu delle acque di Zanzibar li hanno osservati piantare le spugne e i coralli sul fondo della laguna, accompagnare la crescita delle nuove colonie e infine, raggiunti i dieci centimetri, procedere al loro impianto su una barriera corallina ormai spenta di vita. «Tutto avviene sotto l’acqua – spiega Fabrizio – si seguono i cicli dell’alta e della bassa marea. Ci vuole molta cura e una lunga manutenzione».
Ora è arrivato il momento del montaggio del video. Ora però hanno cominciato anche a scarseggiare i fondi per concludere il progetto e per la prima volta hanno pensato di utilizzare il crowfounding, con l’obiettivo di raggiungere i 3 mila euro che permetterebbero di coprire le spese della post produzione. «La campagna di raccolta fondi è da poco on-line e siamo già al 30% dell’obiettivo! – conclude Del Dotto – Per diventare parte della comunità che permetterà di divulgare il messaggio di speranza del film nei più importanti festival internazionali, si può contribuire con ciò che si vuole e condividerla sui social network. In cambio di ciascuna donazione, sono offerte varie ricompense ( https://igg.me/at/w04RIMecdxw/x )».
La più bella è quella che ottiene investendo 50 euro nel progetto: il proprio nome collegato ad un nuovo corallo piantato sulla barriera corallina di Zanzibar. Con tanto di coordinare geografiche per permettere di individuarlo lì, sul fondo del ma
re blu dell’isola africana.
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